Kalenji ovvero antropologia della corsa

kalenji

Rimetto l’immagine dello stupore come lo provo io. Lo stupore della curiosità bambinesca.

stupore

Ammetto che fino a ieri per me Kalenji era solo il marchio entry-level della “roba da corsa” di Decathlon. Poco tempo fa, leggendo un libro molto, molto interessante, ho appreso che Kalenji (o Kalenjin) è un popolo, o meglio un insieme di popoli che abita gli altopiani del Kenya.

Il libro, scritto da Bernd Heinrich si intitola “Correre: una storia naturale” o più propriamente in inglese “why we run: a natural hystory” è quello che mi ha fatto stupire.

Primo, per l’aneddoto sulla scelta del titolo. Infatti il primo titolo dato all’opera era “racing the antelope”, ma l’autore scoprì, suo malgrado, che il titolo era molto inflazionato. In particolare ricevette la telefonata di un autore che lo accusava di avere copiato il titolo! Per cui lo cambiò in corso d’opera, creandone uno forse ancora più centrato.

Secondo, per l’approccio antropologico/genetico/scientifico alla spiegazione dei mirabili risultati nella corsa di fondo che hanno gli atleti Keniani in questi ultimi anni. Un approccio simile è possibile ritrovarlo anche in un altro libro di Daniele Vecchioni “Corsa. La medicina perfetta” in una parte del quale si tratta di questi primati.

Terzo, per la semplice idea del colosso francese Decathlon di intitolare proprio la linea entry level per la corsa a questa specifica tribù.

Per me una idea per essere geniale deve “solleticare” a più livelli. Ma proseguiamo “di corsa”, lasciamo per un momento il multilevel.

Genetica o ambiente? Seme o terreno?

Per alcuni studi che sto facendo per un prossimo articolo, direi, come provocazione, che la genetica, soprattutto per il genere umano, non esiste. E se anche esistesse, è molto, molto pericoloso tirarla in ballo.

Mi spiego meglio.

Se fossimo geneticamente diversi, se effettivamente fenotipi diversi avessero implicazioni genetiche importati, sarebbe facilissimo trovare qualcuno che le vada a classificare. Trovare qualcuno che dica che una caratteristica genetica sia meglio di una altra.

In passato è successo spesso. Neri, Ebrei, albini, addirittura omosessuali, insomma tutti quelli che sono sembrati “diversi” a volte non solo a livello fenotipico, a volte neanche per quello, sono stati, nel migliore dei casi, discriminati. Ma se osservato con attenzione il genoma di una persona di colore non è poi così diverso da un WASP (White Anglo-Saxon Protestant).

seme o terreno?

La cultura popolare

Anche oggi, parlando con una collega, mi arriva una zaffata di cultura popolare. Il suo istruttore di nuoto, le ha detto che non esistono campioni di nuoto con la pelle scura perché fisiologicamente sono fatti diversi. Perché la loro densità è in qualche modo diversa.

In realtà non ci sono campioni di nuoto africani o afroamericani perché semplicemente in Africa ci sono poche piscine. Non ci sono campioni di nuoto afroamericani, perché culturalmente (e probabilmente anche per esiti di lunghissime segregazioni razziali) oltre il 70% degli afroamericani non impara a nuotare. Fonte: Contested Waters: A Social History of Swimming Pools in America. Jeff Wiltse.

La cultura popolare è in grado di fare molti più danni della genetica.

Quindi il terreno?

Ma se siamo tutti uguali, cosa ci differenzia? Il terreno è fondamentale. Il terreno è quello che ci può imbrigliare nel destino o liberarci. Provate a prendere un bambino, anche se fosse figlio dell’eugenetica, anche se fosse il clone di un premio Nobel o di un primatista mondiale di atletica.

Ditegli fino dalla prima infanzia che è un fallito, che nella vita non è destinato a fare niente di buono. Non fategli fare sport e prendetelo in giro quando si muove se è il clone di un primatista mondiale, oppure non fatelo studiare e denigratelo se studia se è il clone di un premio Nobel.

Che fine potrà fare? Ma anche in questo caso, io stesso, sto generalizzando

Cosa rimane del talento?

Talento è una parola tanto pericolosa quanto la genetica o la razza. E’ una gabbia in cui ci limitiamo. Il talento ci rende tutt’altro che liberi.

Per fortuna l’essere umano è splendido. Non si lascia ingabbiare dai pregiudizi sulle razze. Non si lascia abbattere da una educazione sbagliata improntata alla negazione delle competenze. La storia è piena di esempi di personaggi di spicco della sfera umana che venivano da famiglie “border line” o che una famiglia neanche l’avevano. Uomini e donne che hanno preso tutte le botte possibili dalla vita, eppure ancora oggi sono ricordati dai posteri, contro ogni pronostico. Un esempio può essere Mario Capecchi orfano di padre, con la madre deportata nei campi di concentramento quando lui era un bambino. E’ stato adottato e poi abbandonato dalla famiglia adottiva. Passerà la prima infanzia da solo per strada durante la grande guerra, per poi finalmente ricongiungersi con la madre ritornata dalla prigionia. Diventerà premio Nobel nel 2007 per la medicina.

L’importanza del terreno

Le tribù Kalenji vivono in un posto “antropologicamente” importante. Il genere umano, l’homo sapiens è nato sostanzialmente poco distante. Ancora oggi i giovani e giovanissimi keniani, fanno quello che il nostro corpo è progettato per fare. Muoversi e correre. In un’epoca governata dai giochi online, dai monopattini elettrici, dalla automobile sotto il culo è quasi incredibile!

E’ facile vedere decine di alunni percorre a piedi i chilometri che li separano dalle scuole, sia all’andata che al ritorno. La spinta “evolutiva” di diventare dei grandi “maratoneti” è pure fondamentale. Un buon fondista keniano può risollevare la sorte di tutta la propria famiglia con i premi vinti in Europa.

Ma questo non vuole dire che tutti siano velocissimi. La velocità e le vittorie arrivano solo dopo molti anni di duro e metodico lavoro. Questo vale per tutti, anche per i Keniani e soprattutto per noi europei. Certo correre fino da piccoli non può che rappresentare un vantaggio.

Possiamo essere un po’ Kalenji?

Abbiamo scoperto che geneticamente siamo tutti molto simili. Questo è dovuto prevalentemente al fatto che, da quando è apparso il genere homo su questo pianeta, ad oggi, è veramente passato un battito di ciglia. Ancora oggi è possibile trovare importanti tracce del genoma dell’uomo di Neanderthal nel nostro patrimonio genetico. Il nostro DNA è molto simile anche ad altri animali, oltre al 98% per i Bonobo (Pan Paniscus) e poco meno per gli Scimpanzè (Pan Troglodytes). Addirittura ne condividiamo il 60% con le meduse …

Quindi escluse le singolarità statistiche, malattie o problemi fisici ogni uomo può fare senza dubbio quello per cui l’uomo è “progettato” cioè correre.

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Il proto-uomo (australopiteco) si è differenziato da tutto il resto scendendo dagli alberi che stavano scomparendo nel proprio habitat naturale, e cominciando prima a camminare eretto e poi a correre. E’ difficile non notare uno sviluppo coerente fra gli schemi motori di base sia a livello ontogenetico che a livello filogenetico. Il bambino prima rotola, poi si erige, poi cammina ed infine corre. Così ha fatto la nostra specie homo sapiens.

Quindi si, non abbiamo scuse, sulla carta possiamo tutti ottimi corridori.

Ma perché allora siamo tutti così diversi

La diversità è insita nella abitudine. Il genere homo negli ultimi anni sta virando, non fa più quello per cui è nato. Non ci si muove più, non si corre. La vita si è allungata ma la qualità della stessa è diminuita. Non ci si nutre più, ma ci si alimenta. Quello che succede con il cibo e il movimento sta divorando anche le relazioni. Da piccole tribù dove la comunicazione e la relazione erano fondamentali, sempre più spesso ci segreghiamo in un mondo virtuale, incrementando vita sedentaria e alimentazione disordinata. Il circolo in questo modo diventa vizioso.

Forse dovremmo cominciare ad evolvere su questi paradigmi? Quello che ha funzionato per decine di migliaia di anni, ora, comincia a non funzionare più. In ogni caso ci vorranno altre decine di migliaia di anni per vedere un esito evolutivo che potrebbe anche non arrivare mai. Prima è probabile arrivi la nostra estinzione.

La soluzione

Fino a che non ci saremo evoluti in un nuova specie del genere homo (se mai accadrà), è importate continuare a comportarsi come l’evoluzione ci ha forgiato fino ad ora. La base di tutto è il movimento, quotidiano, senza soluzione di continuità. No sedie, no auto, no sedentarietà. E’ necessario muovere il culo insomma.

Non sarà facile vincere questa sfida, l’homo sapiens è la prima specie esistita sul pianeta che ha superato le leggi dell’evoluzione, grazie alla tecnologia. Quello che è stato vero fino ad ora non lo sarà ancora per molto, ma questa è un’altra storia.

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